Cos'è il Diritto? Per un Approccio Classico alla Definizione
Tra l’VIII e il VII secolo a.C. il concetto di diritto era collegato alla legge del più forte, e nei frammenti di Eraclito di poco successivi si ammetteva che la giustizia sorgeva da un conflitto.
Era un’idea di diritto ancora rude e primitiva, ma in poco tempo la Grecia fornì le migliori riflessioni sull’origine di esso. Aristotele fu il primo ad annunciare un criterio di giusto che comprendesse sia le relazioni con gli altri, sia quelle con se stessi; inoltre, divise la giustizia in due categorie: la giustizia distributiva e la correttiva. Per quanto l’autore fosse molto sistematico, le sue soluzioni non trascurano alcuna delle osservazioni della società e introducono concetti, a mio avviso, duraturi e sempre attuali. Il primo tipo di giustizia consiste nel dare a ciascuno secondo il suo merito, il secondo nel dare a tutti lo stesso diritto – che può apparire tautologico ma per un giurista è strumentale, dato che ogni situazione sarà sempre in parte diversa da una precedente. Per constatare il successo di questi pensieri basti pensare che entrambi sono giunti sino ai nostri giorni sotto i nomi di uguaglianza sostanziale il primo, e uguaglianza formale il secondo.
Ma ora chiediamoci se uguaglianza e giustizia possono coincidere (che qualcuno li abbia confusi nel tramandare le parole del filosofo di Stagira?), se è possibile che il giusto si limiti a trattare situazioni uguali nello stesso modo, e situazioni differenti con diversi metodi (odierna definizione di giustizia per come interpretata dall’art. 3 della nostra Costituzione). Pochi credono che i due tipi di giustizia non siano contraddittori e confusionari: e voi?
Solo nel II secolo a.C. Celso coniò la più compiuta definizione di diritto, il quale sarebbe Ars boni et aequi – l’arte del buono e dell’equo.
Tale locuzione ha in sé i parametri del tecnicismo, poiché nell’antica Grecia da quando le Erinni, divinità della vendetta, si fecero Eumenidi, ovvero giudici in tutto e per tutto, il diritto divenne un’arte oratoria. Anzi, la più completa forma di conoscenza e di sapienza, tanto che Cicerone era uso dire contenesse la politica, la filosofia, la storia. Se il diritto doveva essere un’arte, un simbolo di perfezione, proprio come chiedeva Aristotele, non di meno – a quell’epoca – doveva essere giusto. Oggi, invece, è più inteso come pura ars oratoria, slegata da ogni riferimento alla verità: che si sia tornati a ritenere il diritto una supremazia del più forte, in questo caso dialettica? Ecco perché la domanda centrale è se giustizia e diritto possono essere visti e praticati come un’arte.
A mio avviso, la definizione migliore rimane quella di Celso, poiché rende possibile un’attualizzazione del concetto dal punto di vista sociale. L’inserimento del concetto di bontà, trascurato dai commentatori e dai glossatori successivi, rende infatti possibile il mutare del diritto mediante la concezione di buono che ha il popolo.
Nel mondo romano il concetto di giusto si esprimeva con la locuzione neminem ledere ovvero “non nuocere ad alcuno” ed era alla base della famosa legge Aquilia da cui deriva il nostro articolo 2043: «Qualunque fatto doloso o colposo, che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno» (proposizione più astratta, ma essenzialmente identica alla legge romana). Anche la definizione di Kant, secondo cui la propria libertà finisce dove inizia quella degli altri, pare ricalcare il concetto.
Nel mondo medievale venne ripresa l’idea di Aristotele attraverso il commentatore Accursio, che snodò il dubbio del Digesto che vedeva la giustizia madre del diritto, e al tempo stesso definita come il dare ad ognuno secondo suo ius.
I medievali avevano inoltre una concezione meno laica di diritto: ritenevano che esso derivasse dal diritto divino.
Il volere di dio quindi formava in ciascuno un diritto naturale, una sorta di preconoscenza di equità (sempre intesa come divina volontà), che gli uomini trascrivevano sotto la forma di lex humana. Il primo ad affermare ciò fu San Tommaso, tuttavia anche Lutero e i suoi successori si basarono sulla stessa discendenza cambiandone soltanto i nomi. Il diritto diviene così giusto perché deriva dalle leggi del Signore, e cosa potevano definire giusto i medievali, se non il solo diritto divino?

Personalmente, gradisco più il riferimento ad una equità umana, che renda possibile “aggiustare” le norme generali ed astratte, cosicché applicate al caso singolo non diano luogo a una manifesta ingiustizia, piuttosto che a una volontà divina recepita con riflessioni ambigue e non condivise. Le quali, peraltro, hanno suscitato più conflitti di quanti ne volessero sanare.
Il diritto, nella contemporaneità, è definito come un insieme di norme giuridiche: una definizione meno elegante e più scarna rispetto alla mia preferita. Essa però fa riferimento, esclusivamente, al diritto oggettivo, come ad esempio quello contenuto in codici e Costituzioni. La prima grande partizione del diritto è quindi tra oggettivo e soggettivo, laddove con quest’ultimo si intendono le pretese legittime dei singoli, i loro diritti naturali, le situazioni giuridiche soggettive (diritto alla privacy, di proprietà, ecc.). I due non sono altro che facce della stessa medaglia, se si parte dal presupposto che tutto l’insieme di norme contenute nei vari testi siano destinate non solo allo Stato ma soprattutto al singolo.
Molti sono contrari all’uso di termini non meglio definiti all’interno del diritto come anche all’idea stessa di equità, che minerebbe alla certezza del diritto; io sono invece favorevole a quei dettagli perché sono proprio essi a rendere il diritto più umano e flessibile, più adattabile alla società con il mutare del tempo. In fondo, perché il diritto non dovrebbe mutare con la società? Dunque, il diritto è un’arte, e come tale deve sottostare all’estro creativo senza alcun ancoraggio?
Può esso collegarsi al concetto di uguaglianza e a quello mutevole di bontà, o deve limitarsi ad essere una raccolta statica di indicazioni? Partendo dal presupposto che non vi sono verità universali, e pertanto nessun postulato matematico a cui aggrapparsi, quale definizione riscontra la maggiore approvazione?
Ma ora chiediamoci se uguaglianza e giustizia possono coincidere (che qualcuno li abbia confusi nel tramandare le parole del filosofo di Stagira?), se è possibile che il giusto si limiti a trattare situazioni uguali nello stesso modo, e situazioni differenti con diversi metodi (odierna definizione di giustizia per come interpretata dall’art. 3 della nostra Costituzione). Pochi credono che i due tipi di giustizia non siano contraddittori e confusionari: e voi?
Solo nel II secolo a.C. Celso coniò la più compiuta definizione di diritto, il quale sarebbe Ars boni et aequi – l’arte del buono e dell’equo.
Tale locuzione ha in sé i parametri del tecnicismo, poiché nell’antica Grecia da quando le Erinni, divinità della vendetta, si fecero Eumenidi, ovvero giudici in tutto e per tutto, il diritto divenne un’arte oratoria. Anzi, la più completa forma di conoscenza e di sapienza, tanto che Cicerone era uso dire contenesse la politica, la filosofia, la storia. Se il diritto doveva essere un’arte, un simbolo di perfezione, proprio come chiedeva Aristotele, non di meno – a quell’epoca – doveva essere giusto. Oggi, invece, è più inteso come pura ars oratoria, slegata da ogni riferimento alla verità: che si sia tornati a ritenere il diritto una supremazia del più forte, in questo caso dialettica? Ecco perché la domanda centrale è se giustizia e diritto possono essere visti e praticati come un’arte.
A mio avviso, la definizione migliore rimane quella di Celso, poiché rende possibile un’attualizzazione del concetto dal punto di vista sociale. L’inserimento del concetto di bontà, trascurato dai commentatori e dai glossatori successivi, rende infatti possibile il mutare del diritto mediante la concezione di buono che ha il popolo.
Nel mondo romano il concetto di giusto si esprimeva con la locuzione neminem ledere ovvero “non nuocere ad alcuno” ed era alla base della famosa legge Aquilia da cui deriva il nostro articolo 2043: «Qualunque fatto doloso o colposo, che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno» (proposizione più astratta, ma essenzialmente identica alla legge romana). Anche la definizione di Kant, secondo cui la propria libertà finisce dove inizia quella degli altri, pare ricalcare il concetto.
Nel mondo medievale venne ripresa l’idea di Aristotele attraverso il commentatore Accursio, che snodò il dubbio del Digesto che vedeva la giustizia madre del diritto, e al tempo stesso definita come il dare ad ognuno secondo suo ius.
I medievali avevano inoltre una concezione meno laica di diritto: ritenevano che esso derivasse dal diritto divino.
Il volere di dio quindi formava in ciascuno un diritto naturale, una sorta di preconoscenza di equità (sempre intesa come divina volontà), che gli uomini trascrivevano sotto la forma di lex humana. Il primo ad affermare ciò fu San Tommaso, tuttavia anche Lutero e i suoi successori si basarono sulla stessa discendenza cambiandone soltanto i nomi. Il diritto diviene così giusto perché deriva dalle leggi del Signore, e cosa potevano definire giusto i medievali, se non il solo diritto divino?

Personalmente, gradisco più il riferimento ad una equità umana, che renda possibile “aggiustare” le norme generali ed astratte, cosicché applicate al caso singolo non diano luogo a una manifesta ingiustizia, piuttosto che a una volontà divina recepita con riflessioni ambigue e non condivise. Le quali, peraltro, hanno suscitato più conflitti di quanti ne volessero sanare.
Il diritto, nella contemporaneità, è definito come un insieme di norme giuridiche: una definizione meno elegante e più scarna rispetto alla mia preferita. Essa però fa riferimento, esclusivamente, al diritto oggettivo, come ad esempio quello contenuto in codici e Costituzioni. La prima grande partizione del diritto è quindi tra oggettivo e soggettivo, laddove con quest’ultimo si intendono le pretese legittime dei singoli, i loro diritti naturali, le situazioni giuridiche soggettive (diritto alla privacy, di proprietà, ecc.). I due non sono altro che facce della stessa medaglia, se si parte dal presupposto che tutto l’insieme di norme contenute nei vari testi siano destinate non solo allo Stato ma soprattutto al singolo.
Molti sono contrari all’uso di termini non meglio definiti all’interno del diritto come anche all’idea stessa di equità, che minerebbe alla certezza del diritto; io sono invece favorevole a quei dettagli perché sono proprio essi a rendere il diritto più umano e flessibile, più adattabile alla società con il mutare del tempo. In fondo, perché il diritto non dovrebbe mutare con la società? Dunque, il diritto è un’arte, e come tale deve sottostare all’estro creativo senza alcun ancoraggio?
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Comments
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Per quanto riguarda il commento di Giulia, anche io credo che la politicizzazion e del diritto ne infici l'equità, e sono assolutamente concorde con Paolo sul principio secondo cui la magistratura debba essere autonoma rispetto agli altri poteri. Anzi, mi azzardo ad affermare che vorrei più una popolarizzazion e della classe giuridica. Non sto parlando dello sbilanciamento dei princìpi o della giurisprudenza (che devono essere imparziali ed equi), ma del fatto che si dovrebbe impiegare più tempo, come operatori di diritto, a spiegarne i meccanismi anche ai non esperti. Forse così essi si accorgerebbero del fatto che in molto il diritto coincide con i loro valori e si sentirebbero da esso meno "incompresi".