Come ti Disintegro i Pregiudizi sulla Cina
Si dice che chi torna da un viaggio non sia mai la stessa persona che è partita.
Per viaggio, però, non si intende la settimana in crociera o la vacanza a Riccione. Certo, non è da escludere che anche nei due casi appena citati ci sia sempre qualcosa da imparare, da scoprire e da raccontare. Ma il viaggio è una inaspettata avventura nell’ignoto, una immersione in mare aperto, una voglia di abbattere confini, pregiudizi e luoghi comuni che fa sentire rinati in attesa del suo inizio quando se ne vive il momento, e ogni volta che ne riaffioreranno i ricordi.
Inoltre non esiste una guida che ci illustri, passo dopo passo, come affrontare il viaggio nella maniera più giusta e piena possibile, e nemmeno chi si è spinto a compiere il giro del mondo può aiutarci a trovarla, poiché si tratta di un’esperienza intima e personale, diversa per ogni uomo. Immagina di avere sedici anni, di vivere una vita normale e un po’ monotona in un piccolo borgo di campagna, di andare a scuola ogni giorno e di essere un adolescente riservato, a volte timido, con la testa piena di sogni e una grande passione: quella per le lingue. Un giorno ti parlano della possibilità di frequentare l’intero quarto anno in un Paese straniero. L’idea inizia a ronzarti per la testa, cominci a valutare i pro e i contro di una tale esperienza, e subito pensi che, studiando cinese ormai da tre anni, trascorrere un anno nel Chung-kuo1 ti renderebbe finalmente un fenomeno nei simboli.
Sbagliato. «Non si parte con l’unico scopo di imparare la lingua, bensì con la curiosità di scoprire una nuova cultura», ti ripetono fino allo sfinimento. Tu sorridi e annuisci, per nulla convinto di quell’affermazione, che ti appare invece come una di quelle banali frasi fatte sul viaggio. Ad ogni modo, prendi appuntamento all’ufficio passaporti, ti metti in contatto con la famiglia che ti sta già aspettando dall’altra parte del globo, invii foto alla tua futura “cugina” cinese e cerchi di vivere al meglio gli ultimi mesi che ti restano, a casa, come se ti attendesse la discesa negli inferi. L’ultima serata con gli amici, l’ultima pizza, l’ultima nottata nel tuo caro letto e l’ultimo abbraccio ai genitori.
A questo punto, con l’età acerba, la riservatezza che ti contraddistingue, un dizionario di cinese sotto il braccio ed una stima di circa sessanta chili di valigie, sei pronto per salire sull’aereo più grande che tu abbia mai visto. Mentre guardi un film sperando invano che quelle tredici ore di volo possano esaurirsi nell’una e mezza della drammatica commedia che stai fingendo di seguire, inizi a realizzare che non è uno scherzo, che quel pomeriggio non tornerai a casa a mangiarti un bel piatto di pasta dopo un’estenuante giornata di scuola, ma dovrai affrontare prove che, per ora, su quel comodissimo aereo non riesci proprio ad immaginare.
Quando metti piede in terra cinese, o anche solo la punta di un dito, vieni travolto da un odore che resterà impresso nei ricordi, di cui negli anni a venire cercherai di raccontare senza mai trovare le parole giuste, e ti viene il sospetto che il pilota dell’aereo si chiamasse davvero Caronte. Subito ti compare nella mente l’immagine di quelle mascherine che hai sempre visto indossate dagli asiatici nei telegiornali, e pensi che diventerà la tua migliore amica per i prossimi dieci mesi. Ma non c’è tempo per pensare: già ti sei perso nell’aeroporto di Pechino, che supera per superficie e numero di “abitanti” il tuo gioioso e profumato paesino di campagna.
La prima sera in un hotel della capitale è traumatica: gli altri ragazzi che, come te, tra due giorni verranno smistati in diverse città cinesi, si divertono, fanno amicizia, sono eccitati per ciò che li aspetta. Tu invece ti chiudi nella stanza a piangere perché non hai mangiato praticamente nulla se non una ciotola di riso bianco scondito, e sei convinto che sarà la tua prospettiva per i prossimi mesi; non riesci a comunicare con l’Italia; la prima nottata è tanto drammatica che non potrai mai resistere per un intero anno – per giunta scolastico.
Il terzo giorno, nelle sette ore di pullman che portano verso la tua futura città, conosci gli italiani che condivideranno con te il dormitorio, la classe e l’esperienza. Pensi che in qualche modo dovrai andarci d’accordo, e per fortuna fin da subito si mostrano simpatici e socievoli, ciò di cui hai bisogno insomma. In una serata di pioggia scrosciante, arrivi a Shijiazhuang, tredici milioni di abitanti, un “piccolo paese” lo definiranno poi i cinesi. Conosci il professore che insegnerà la lingua dei simboli a te, agli altri sette italiani e a una ventina di thailandesi; vieni a sapere che con una di queste venti condividerai la tua stanza, che ti sembra così spoglia e triste da non far patire la malinconia di due sere prima. E poi, dopo qualche chiacchiera di presentazione davanti a un enorme piatto di noodles con carne e alghe, puoi finalmente sdraiarti sul piano di legno che ti hanno spacciato per letto, ti fai un pianto liberatorio sotto le coperte e ti addormenti con la convinzione di aver preso la decisione più deludente della tua vita. La mattina seguente apri gli occhi e trovi la thailandese già pronta per uscire, vorresti cadere in un sonno profondo, invece ti alzi e vai incontro alla nuova esperienza.
L’impatto con la cultura è fortissimo: è un’avventura che travolge da subito, tra una crisi di pianto e l’eccitazione.
Anche se contro la tua volontà, ti spinge a dare tutto te stesso, a costruire le basi per le giornate a venire, a sperimentare qualcosa di nuovo ogni giorno. Raccogli allora ogni briciola di buona volontà e vai a comprare l’occorrente per rendere la stanza vivibile, per mettere un po’ di te in quel dormitorio in cui vivrai durante la settimana e da cui ti allontanerai solo nel weekend, da trascorrere in famiglia.
E la lingua? Bastano pochi secondi alla cassa del supermercato per capire che i tre anni di studio del cinese sono andati in fumo: forse per l’emozione, forse perché lo smog ti è entrato anche nel cervello, ma ti rendi conto di non saper nemmeno capire la cifra numerica che la cassiera ti dice rapida, pur con lo sguardo stupito e alquanto curioso. Non si vedono tanti occidentali nelle “piccole città” della Cina. Devi abituarti sin dal primo giorno a uomini, donne, bambini e anziani dagli occhi a mandorla, che, qualunque cosa stiano facendo in quel momento, alla vista di un occidentale si fermano, prendono lo smartphone e ti scattano una ventina di foto con tanto di flash, da postare su WeChat (un po’ il nostro WhatsApp, per intenderci). Certo, un’abitudine non così dura da accettare, anzi forse uno degli aspetti che dà maggiori soddisfazioni, insieme agli autografi che chiedono e alle ispezioni del tuo grande naso e delle folte sopracciglia, che tanto amano.
In questo comico e surreale frullo di eventi, tra un primo pranzo in mensa da dimenticare, e folle di studenti cinesi in divise lilla, tra giornate di scuola dalle otto del mattino alle otto di sera, ed i primi approcci con la gente del quartiere, dimentichi che non hai ancora un numero cinese e nemmeno un wi-fi nel dormitorio, quindi scordi di deprimerti sotto le coperte prima di dormire, e non ti passa più per la testa l’idea di interrompere l’avventura, perché ormai è ricolma di centinaia di caratteri cinesi da sapere per il dettato della mattina dopo. Solo una cosa, tu e i tuoi compagni italiani, non riuscite proprio ad accettare: l’assenza di libertà. La libertà di stare una mezz’ora nel cortile del dormitorio a parlare, la libertà per le femmine di andare negli appartamenti dei ragazzi e viceversa, o quella di non andare a scuola quando si è malati. Sono privazioni difficili da comprendere per uno studente occidentale, che cerca di convincere il professore cinese ad essere meno duro. Per quest’ultimo, d’altronde, è complicato vedere la situazione da un altro punto di vista.
La normalità, per il docente, è trovare l’aula completa dei suoi sessanta ragazzi alle 7:30 del mattino, e senza concedere ritardi; la normalità è insegnare fino alle 22, con dieci minuti di pausa alla fine d’ogni ora e il pranzo e la cena in mensa. È la norma pure chiedere il massimo silenzio durante la lezione, il massimo rispetto. Qualcosa di impensabile, da noi.
Il docente cinese e lo studente italiano sono del tutto discordi sul concetto di vita scolastica, il quale origina dissapori e tensioni in aula.
A fine settimana ti rendi conto d’aver passato la settimana tra dormitorio e college, che sono l’uno di fronte all’altro, e che della metropoli conosci soltanto una strada. Ma è tempo del grande incontro, quello con la famiglia cinese, tanto atteso quanto temuto. Quando i tuoi host parents – ossia madre e padre ospitanti – e una delle due figlie si presentano, sono sorridenti e ti mettono subito a tuo agio. Sia chiaro: non capiresti una parola di quello che dicono, se non fosse che la mamma insegna inglese alle scuole elementari ed è la prima cinese che incontri che non sappia solo dire «hello», e tiene pure una pronuncia british! Dopo qualche minuto in cui conversi allegramente con quella graziosa donna cinese che assomiglia, d’aspetto, alla tua madre italiana, arrivi a casa e conosci l’altra sorellina: neppure un anno di età. E un po’ per la sua straordinaria dolcezza, un po’ perché (come te) non sa ancora parlare il cinese, te ne innamori subito dopo averla presa in braccio.
Finalmente, la sera vai a dormire col sorriso stampato in faccia, perché ti sei sentito a casa e sai per certo che non vorresti essere in nessun altro luogo. Nel primo impatto sei costretto a parlare solo con la madre, che a sua volta traduce agli altri membri della famiglia, però scopri il vero cibo cinese, conosci i nonni, gli zii e le cugine, e metti insieme le prime frasi complete. Nei fine settimana a seguire metti piano piano da parte la timidezza, e inizi a farti conoscere per ciò che sei dando una mano in cucina, giocando con le sorelline e conquistando di volta in volta la fiducia degli ospitanti. Che non vogliono mostrarlo troppo, ma si preoccupano per te e fanno fatica a lasciarti uscire con i tuoi amici, quindi le prime volte si offrono di portarti in centro e di venirti a prendere. Ma, capendo presto di potersi fidare, ti spiegano su quali autobus salire e ti consegnano le chiavi di casa.
Quando, la domenica sera, torni in dormitorio e trovi gli altri italiani ad aspettarti è sempre una gioia, perché senti di essere nella tua comfort zone, ma quando anche insieme alla famiglia ti senti al posto giusto, capisci di aver raggiunto un gradino più alto. Indubbiamente devi essere in grado di superare le difficoltà quotidiane presenti in qualunque nucleo familiare; non è facile indovinare ciò a cui pensa un cinese mentre ti parla (del resto, è forse facile farlo anche dove sei nato?), ma i segni e i pensieri si traducono vivendoci a contatto. La famiglia ospitante poi, acconsentirà a quasi tutte le tue richieste, se realizzabili, pur restandone turbata. Non lascerà trasparire nulla, se non una sottile, fine espressione di dissenso, difficile da intuire. Dunque sta a te decidere se porre loro la questione o se aspettare, guadagnando un altro pezzetto della loro fiducia. Oppure saranno loro a darti il permesso, senza che tu lo debba chiedere.
Sarà che i bambini fanno fatica a nascondere le proprie emozioni, però arriva un momento in cui la sorella undicenne inizia a guardarti male, a risponderti in modo sgarbato, a non sforzarsi di parlare inglese per comunicare con te, e lì capisci che c’è qualche problema da risolvere. Inizi quindi a passare più tempo con lei e meno con la sorellina più piccola, le insegni le prime parole in italiano, la aiuti a studiare, dormi con lei quando te lo chiede e la accompagni al parco a giocare. Pian piano riesci a riacquistare la sua fiducia e a guadagnare il suo affetto, che ti dimostra regalando caramelle di ritorno da scuola. In certi momenti avverti il bisogno di un abbraccio di mamma o del consiglio saggio di tuo padre, ma per qualunque effusione mai fare riferimento agli host parents: devi attendere il tuo ritorno al dormitorio per goderti il calore italiano. Il contatto fisico tra familiari è raro ed è un aspetto che fa riflettere, ma è anch’esso l’ennesimo spunto di confronto. Noi più affabili, espansivi, loro più sostenuti (anche qui: non che fossimo diversi, ai tempi dei bisnonni, quando si dava del «lei» anche al nonno). Ti abitui e impari ad apprezzare un modo diverso di educare i figli.
La vita scolastica, intanto, procede con qualche intoppo. Gli stessi incontrati i primi giorni, che ora si sono ingigantiti, portando studenti e insegnanti al compromesso, primo fra tutti il tanto ambito spazio di libertà nel cortile del dormitorio. Ma come resistere alle ore di lezione serale, specie se al termine ti obbligano a fare ritorno in dormitorio, femmine con femmine, maschi con maschi. Se ci aggiungi poi la sveglia umana della ayi (“zia” letteralmente, ma di fatto la signora che controlla i ragazzi stranieri nella struttura), con le sue urla all’alba a ricordare di portare fuori la spazzatura e di fare il letto secondo il metodo da lei impartito, inizi a pensare che c’è in agguato l’esaurimento nervoso. In realtà, a ripensarci più tardi, quei ritmi inusuali, quegli usi un po’ da caserma e un po’ da colonia anni Cinquanta, sono i ricordi più belli.
Intanto i mesi passano, i caratteri cinesi che sei riuscito a imparare aumentano ogni giorno, e puoi finalmente dialogare con tutti, allargare la cerchia dei contatti e fare amicizia con gli studenti cinesi. Quando sentono un occidentale parlare bene la loro lingua rimangono sbalorditi e vogliono dimostrartelo in tutti i modi attirando la tua attenzione, chiedendoti il numero di Wechat, offrendoti qualche merendina durante la lezione. Passando le loro giornate nell’ambiente scolastico non sono tanti gli ambiti su cui sviluppare un dialogo, ma mostrano comunque grande interesse per la cultura italiana, fanno domande e vogliono saperne di più. È un continuo scambio di idee e sensazioni che arricchisce e fa riflettere.
Realizzi, inoltre, che l’esperienza è squisitamente reciproca. Pare una banalità, eppure capisci di aver fatto uno sforzo che non è tale; si tratta invece di un avvicinamento, di una conquista interiore, e niente c’è di più prezioso. Così, mentre tu portavi a casa un pezzo di Cina, i tuoi host parents ti rubavano un pezzetto di Italia, ed insieme mescolavate sfumature diverse di culture a creare il colore caldo e commovente della condivisione.

* Chung-kuo è l’antico nome della Cina, e letteralmente vuol dire “Stato centrale”: in realtà il termine, la cui origine si perde nella notte dei tempi, designava i possedimenti del sovrano, circondati da quelli dei feudatari.
Inoltre non esiste una guida che ci illustri, passo dopo passo, come affrontare il viaggio nella maniera più giusta e piena possibile, e nemmeno chi si è spinto a compiere il giro del mondo può aiutarci a trovarla, poiché si tratta di un’esperienza intima e personale, diversa per ogni uomo. Immagina di avere sedici anni, di vivere una vita normale e un po’ monotona in un piccolo borgo di campagna, di andare a scuola ogni giorno e di essere un adolescente riservato, a volte timido, con la testa piena di sogni e una grande passione: quella per le lingue. Un giorno ti parlano della possibilità di frequentare l’intero quarto anno in un Paese straniero. L’idea inizia a ronzarti per la testa, cominci a valutare i pro e i contro di una tale esperienza, e subito pensi che, studiando cinese ormai da tre anni, trascorrere un anno nel Chung-kuo1 ti renderebbe finalmente un fenomeno nei simboli.
Sbagliato. «Non si parte con l’unico scopo di imparare la lingua, bensì con la curiosità di scoprire una nuova cultura», ti ripetono fino allo sfinimento. Tu sorridi e annuisci, per nulla convinto di quell’affermazione, che ti appare invece come una di quelle banali frasi fatte sul viaggio. Ad ogni modo, prendi appuntamento all’ufficio passaporti, ti metti in contatto con la famiglia che ti sta già aspettando dall’altra parte del globo, invii foto alla tua futura “cugina” cinese e cerchi di vivere al meglio gli ultimi mesi che ti restano, a casa, come se ti attendesse la discesa negli inferi. L’ultima serata con gli amici, l’ultima pizza, l’ultima nottata nel tuo caro letto e l’ultimo abbraccio ai genitori.
A questo punto, con l’età acerba, la riservatezza che ti contraddistingue, un dizionario di cinese sotto il braccio ed una stima di circa sessanta chili di valigie, sei pronto per salire sull’aereo più grande che tu abbia mai visto. Mentre guardi un film sperando invano che quelle tredici ore di volo possano esaurirsi nell’una e mezza della drammatica commedia che stai fingendo di seguire, inizi a realizzare che non è uno scherzo, che quel pomeriggio non tornerai a casa a mangiarti un bel piatto di pasta dopo un’estenuante giornata di scuola, ma dovrai affrontare prove che, per ora, su quel comodissimo aereo non riesci proprio ad immaginare.
Quando metti piede in terra cinese, o anche solo la punta di un dito, vieni travolto da un odore che resterà impresso nei ricordi, di cui negli anni a venire cercherai di raccontare senza mai trovare le parole giuste, e ti viene il sospetto che il pilota dell’aereo si chiamasse davvero Caronte. Subito ti compare nella mente l’immagine di quelle mascherine che hai sempre visto indossate dagli asiatici nei telegiornali, e pensi che diventerà la tua migliore amica per i prossimi dieci mesi. Ma non c’è tempo per pensare: già ti sei perso nell’aeroporto di Pechino, che supera per superficie e numero di “abitanti” il tuo gioioso e profumato paesino di campagna.
La prima sera in un hotel della capitale è traumatica: gli altri ragazzi che, come te, tra due giorni verranno smistati in diverse città cinesi, si divertono, fanno amicizia, sono eccitati per ciò che li aspetta. Tu invece ti chiudi nella stanza a piangere perché non hai mangiato praticamente nulla se non una ciotola di riso bianco scondito, e sei convinto che sarà la tua prospettiva per i prossimi mesi; non riesci a comunicare con l’Italia; la prima nottata è tanto drammatica che non potrai mai resistere per un intero anno – per giunta scolastico.
Il terzo giorno, nelle sette ore di pullman che portano verso la tua futura città, conosci gli italiani che condivideranno con te il dormitorio, la classe e l’esperienza. Pensi che in qualche modo dovrai andarci d’accordo, e per fortuna fin da subito si mostrano simpatici e socievoli, ciò di cui hai bisogno insomma. In una serata di pioggia scrosciante, arrivi a Shijiazhuang, tredici milioni di abitanti, un “piccolo paese” lo definiranno poi i cinesi. Conosci il professore che insegnerà la lingua dei simboli a te, agli altri sette italiani e a una ventina di thailandesi; vieni a sapere che con una di queste venti condividerai la tua stanza, che ti sembra così spoglia e triste da non far patire la malinconia di due sere prima. E poi, dopo qualche chiacchiera di presentazione davanti a un enorme piatto di noodles con carne e alghe, puoi finalmente sdraiarti sul piano di legno che ti hanno spacciato per letto, ti fai un pianto liberatorio sotto le coperte e ti addormenti con la convinzione di aver preso la decisione più deludente della tua vita. La mattina seguente apri gli occhi e trovi la thailandese già pronta per uscire, vorresti cadere in un sonno profondo, invece ti alzi e vai incontro alla nuova esperienza.
L’impatto con la cultura è fortissimo: è un’avventura che travolge da subito, tra una crisi di pianto e l’eccitazione.
Anche se contro la tua volontà, ti spinge a dare tutto te stesso, a costruire le basi per le giornate a venire, a sperimentare qualcosa di nuovo ogni giorno. Raccogli allora ogni briciola di buona volontà e vai a comprare l’occorrente per rendere la stanza vivibile, per mettere un po’ di te in quel dormitorio in cui vivrai durante la settimana e da cui ti allontanerai solo nel weekend, da trascorrere in famiglia.
E la lingua? Bastano pochi secondi alla cassa del supermercato per capire che i tre anni di studio del cinese sono andati in fumo: forse per l’emozione, forse perché lo smog ti è entrato anche nel cervello, ma ti rendi conto di non saper nemmeno capire la cifra numerica che la cassiera ti dice rapida, pur con lo sguardo stupito e alquanto curioso. Non si vedono tanti occidentali nelle “piccole città” della Cina. Devi abituarti sin dal primo giorno a uomini, donne, bambini e anziani dagli occhi a mandorla, che, qualunque cosa stiano facendo in quel momento, alla vista di un occidentale si fermano, prendono lo smartphone e ti scattano una ventina di foto con tanto di flash, da postare su WeChat (un po’ il nostro WhatsApp, per intenderci). Certo, un’abitudine non così dura da accettare, anzi forse uno degli aspetti che dà maggiori soddisfazioni, insieme agli autografi che chiedono e alle ispezioni del tuo grande naso e delle folte sopracciglia, che tanto amano.
In questo comico e surreale frullo di eventi, tra un primo pranzo in mensa da dimenticare, e folle di studenti cinesi in divise lilla, tra giornate di scuola dalle otto del mattino alle otto di sera, ed i primi approcci con la gente del quartiere, dimentichi che non hai ancora un numero cinese e nemmeno un wi-fi nel dormitorio, quindi scordi di deprimerti sotto le coperte prima di dormire, e non ti passa più per la testa l’idea di interrompere l’avventura, perché ormai è ricolma di centinaia di caratteri cinesi da sapere per il dettato della mattina dopo. Solo una cosa, tu e i tuoi compagni italiani, non riuscite proprio ad accettare: l’assenza di libertà. La libertà di stare una mezz’ora nel cortile del dormitorio a parlare, la libertà per le femmine di andare negli appartamenti dei ragazzi e viceversa, o quella di non andare a scuola quando si è malati. Sono privazioni difficili da comprendere per uno studente occidentale, che cerca di convincere il professore cinese ad essere meno duro. Per quest’ultimo, d’altronde, è complicato vedere la situazione da un altro punto di vista.
La normalità, per il docente, è trovare l’aula completa dei suoi sessanta ragazzi alle 7:30 del mattino, e senza concedere ritardi; la normalità è insegnare fino alle 22, con dieci minuti di pausa alla fine d’ogni ora e il pranzo e la cena in mensa. È la norma pure chiedere il massimo silenzio durante la lezione, il massimo rispetto. Qualcosa di impensabile, da noi.
Il docente cinese e lo studente italiano sono del tutto discordi sul concetto di vita scolastica, il quale origina dissapori e tensioni in aula.
A fine settimana ti rendi conto d’aver passato la settimana tra dormitorio e college, che sono l’uno di fronte all’altro, e che della metropoli conosci soltanto una strada. Ma è tempo del grande incontro, quello con la famiglia cinese, tanto atteso quanto temuto. Quando i tuoi host parents – ossia madre e padre ospitanti – e una delle due figlie si presentano, sono sorridenti e ti mettono subito a tuo agio. Sia chiaro: non capiresti una parola di quello che dicono, se non fosse che la mamma insegna inglese alle scuole elementari ed è la prima cinese che incontri che non sappia solo dire «hello», e tiene pure una pronuncia british! Dopo qualche minuto in cui conversi allegramente con quella graziosa donna cinese che assomiglia, d’aspetto, alla tua madre italiana, arrivi a casa e conosci l’altra sorellina: neppure un anno di età. E un po’ per la sua straordinaria dolcezza, un po’ perché (come te) non sa ancora parlare il cinese, te ne innamori subito dopo averla presa in braccio.
Finalmente, la sera vai a dormire col sorriso stampato in faccia, perché ti sei sentito a casa e sai per certo che non vorresti essere in nessun altro luogo. Nel primo impatto sei costretto a parlare solo con la madre, che a sua volta traduce agli altri membri della famiglia, però scopri il vero cibo cinese, conosci i nonni, gli zii e le cugine, e metti insieme le prime frasi complete. Nei fine settimana a seguire metti piano piano da parte la timidezza, e inizi a farti conoscere per ciò che sei dando una mano in cucina, giocando con le sorelline e conquistando di volta in volta la fiducia degli ospitanti. Che non vogliono mostrarlo troppo, ma si preoccupano per te e fanno fatica a lasciarti uscire con i tuoi amici, quindi le prime volte si offrono di portarti in centro e di venirti a prendere. Ma, capendo presto di potersi fidare, ti spiegano su quali autobus salire e ti consegnano le chiavi di casa.
Quando, la domenica sera, torni in dormitorio e trovi gli altri italiani ad aspettarti è sempre una gioia, perché senti di essere nella tua comfort zone, ma quando anche insieme alla famiglia ti senti al posto giusto, capisci di aver raggiunto un gradino più alto. Indubbiamente devi essere in grado di superare le difficoltà quotidiane presenti in qualunque nucleo familiare; non è facile indovinare ciò a cui pensa un cinese mentre ti parla (del resto, è forse facile farlo anche dove sei nato?), ma i segni e i pensieri si traducono vivendoci a contatto. La famiglia ospitante poi, acconsentirà a quasi tutte le tue richieste, se realizzabili, pur restandone turbata. Non lascerà trasparire nulla, se non una sottile, fine espressione di dissenso, difficile da intuire. Dunque sta a te decidere se porre loro la questione o se aspettare, guadagnando un altro pezzetto della loro fiducia. Oppure saranno loro a darti il permesso, senza che tu lo debba chiedere.
Sarà che i bambini fanno fatica a nascondere le proprie emozioni, però arriva un momento in cui la sorella undicenne inizia a guardarti male, a risponderti in modo sgarbato, a non sforzarsi di parlare inglese per comunicare con te, e lì capisci che c’è qualche problema da risolvere. Inizi quindi a passare più tempo con lei e meno con la sorellina più piccola, le insegni le prime parole in italiano, la aiuti a studiare, dormi con lei quando te lo chiede e la accompagni al parco a giocare. Pian piano riesci a riacquistare la sua fiducia e a guadagnare il suo affetto, che ti dimostra regalando caramelle di ritorno da scuola. In certi momenti avverti il bisogno di un abbraccio di mamma o del consiglio saggio di tuo padre, ma per qualunque effusione mai fare riferimento agli host parents: devi attendere il tuo ritorno al dormitorio per goderti il calore italiano. Il contatto fisico tra familiari è raro ed è un aspetto che fa riflettere, ma è anch’esso l’ennesimo spunto di confronto. Noi più affabili, espansivi, loro più sostenuti (anche qui: non che fossimo diversi, ai tempi dei bisnonni, quando si dava del «lei» anche al nonno). Ti abitui e impari ad apprezzare un modo diverso di educare i figli.
La vita scolastica, intanto, procede con qualche intoppo. Gli stessi incontrati i primi giorni, che ora si sono ingigantiti, portando studenti e insegnanti al compromesso, primo fra tutti il tanto ambito spazio di libertà nel cortile del dormitorio. Ma come resistere alle ore di lezione serale, specie se al termine ti obbligano a fare ritorno in dormitorio, femmine con femmine, maschi con maschi. Se ci aggiungi poi la sveglia umana della ayi (“zia” letteralmente, ma di fatto la signora che controlla i ragazzi stranieri nella struttura), con le sue urla all’alba a ricordare di portare fuori la spazzatura e di fare il letto secondo il metodo da lei impartito, inizi a pensare che c’è in agguato l’esaurimento nervoso. In realtà, a ripensarci più tardi, quei ritmi inusuali, quegli usi un po’ da caserma e un po’ da colonia anni Cinquanta, sono i ricordi più belli.
Intanto i mesi passano, i caratteri cinesi che sei riuscito a imparare aumentano ogni giorno, e puoi finalmente dialogare con tutti, allargare la cerchia dei contatti e fare amicizia con gli studenti cinesi. Quando sentono un occidentale parlare bene la loro lingua rimangono sbalorditi e vogliono dimostrartelo in tutti i modi attirando la tua attenzione, chiedendoti il numero di Wechat, offrendoti qualche merendina durante la lezione. Passando le loro giornate nell’ambiente scolastico non sono tanti gli ambiti su cui sviluppare un dialogo, ma mostrano comunque grande interesse per la cultura italiana, fanno domande e vogliono saperne di più. È un continuo scambio di idee e sensazioni che arricchisce e fa riflettere.
Realizzi, inoltre, che l’esperienza è squisitamente reciproca. Pare una banalità, eppure capisci di aver fatto uno sforzo che non è tale; si tratta invece di un avvicinamento, di una conquista interiore, e niente c’è di più prezioso. Così, mentre tu portavi a casa un pezzo di Cina, i tuoi host parents ti rubavano un pezzetto di Italia, ed insieme mescolavate sfumature diverse di culture a creare il colore caldo e commovente della condivisione.

* Chung-kuo è l’antico nome della Cina, e letteralmente vuol dire “Stato centrale”: in realtà il termine, la cui origine si perde nella notte dei tempi, designava i possedimenti del sovrano, circondati da quelli dei feudatari.
** Photo: Union symbol – The Master of Nets Garden, Suzhou.
Comments
The clarity to your post is simply cool and i could assume
you're knowledgeable in this subject. Fine along with your permission let me to take hold of your feed to stay updated with drawing close post.
Thank you one million and please carry on the enjoyable work.
una stupenda interpretazione: quante possibilità avremmo per conoscere e quindi per conoscerci! io voto per un bis: se la giornalista è in ascolto, mi sa che non sarei l'unico a voler leggere ancora qualcosa del genere!!!!
non c'è parte del mondo nella quale l'infanzia abbia il volto di un incantesimo di natura, e quelle dinamiche riempiono il cuore di tutti i popoli. come sarebbe facile essere uniti, concordi, ricchi della condivisione di cui parla l'articolo.
Uno spunto davvero interessante. Ci sarà un seguito?
grazie.
Non siamo inconciliabili, anzi siamo più simili di quanto si pensi: il governo cinese fa di tutto per rinnegare e cancellare un passato colossale ma il popolo resta com'è, generoso, gentile e rispettoso; da noi succede uguale, il governo cancella per incompetenza, poi tenta di ricostruire (male, o solo a chiacchiere, sempre per incompetenza) e gli italiani rimangono quelli del neorealismo.