Ontologia della Famiglia
La comunità è l’antidoto a tutte le malattie degli uomini.
Peccato non sia granché promossa, più che mai nell’èra digitale, dove il concetto è associato in modo assai penoso alle funzioni tecnologiche, che ci mettono in relazione da un capo all’altro del globo. La comunità, per chi vede gli uomini non come persone ma come consumatori, è quella che permette al singolo di sovrastare la propria solitudine con il benessere, un benessere che riserva – nei “propri spazi” – l’illusione dei rapporti. E le istituzioni non favoriscono di certo il valore originale. In riferimento alla possibilità di una convivenza pacifica in mancanza di un apparato burocratico statale, viene spontaneo analizzare le società in cui quella maniera di vivere è possibile. Mi è stato fatto notare come in alcuni nuclei africani la convivenza senza coercizione sia applicata in concreto, ma si tratta di ristrette comunità rispetto alla maggior parte di popolazione del mondo, presso la quale risulta molto difficile una concordanza cercata in ogni modo. Mi chiedo da cos’altro derivi l’impossibilità di emulare l’esempio africano.
Oltre che estremamente più ampia, la nostra comunità corre verso la affermazione degli interessi individuali, tanto che neanche la più embrionale delle società sembra poter sopravvivere.
Mi riferisco alla famiglia, o quello che la nostra Costituzione definisce all’art. 29 come una “società naturale fondata sul matrimonio”. Tralasciando per il momento le considerazioni sul matrimonio, è utile da sottolineare come la naturalezza dell’associazione qua menzionata sia corrispondente alla spontaneità della convivenza e della vita familiare. Non vado a ribadire l’eterno concetto di uomo come animale sociale; au contraire, voglio evidenziare come il presunto progresso di razionalità dell’uomo coincida non solo con il suo rifuggire qualsiasi rapporto di fiducia o dipendenza, ma anche con il rifiuto totale della sua incompletezza. All’interno di una comunità applicante i princìpi anarchici mi pare sia d’obbligo la volontà di ciascuno nel preservare lo status quo, poiché riconosce l’utilità di quel regime pacifico di condivisione.
In spiccioli, è la base di una società utopica, che se sapessimo concretizzare sarebbe davvero ideale.
Lì ognuno vuol mantenere quel regime comunitario, perché sente che ciò è necessario anche a se stesso: non si potrebbe pretendere da una comunità intera la totale dedizione alla causa anarchica senza un tornaconto o un interesse personale. Però osserviamo quotidianamente come l’uomo moderno cerchi in tutti i modi di rendersi non solo autosufficiente, ma anche privo di qualsivoglia responsabilità. Questo fenomeno è evidente proprio nella più semplice forma di aggregazione. Quanti, oggi, rinunciano alla dedizione alla famiglia per ambizione personale? Quanti rinunciano alla costituzione stessa di una famiglia (mi riferisco a famiglia in qualsiasi modo la si intenda, istituzionalizzata o meno)? Quelle persone che non vogliono neanche far parte della più piccola delle comunità, vorranno forse partecipare ad una più ampia – che sia essa anarchica o statale? Anche Massimo Recalcati, famoso psicanalista, afferma: «Fare gli interessi della collettività è percepito come un abuso di potere contro la libertà dell’individuo». L’uomo moderno desidera la libertà assoluta, quella sciolta da limiti che potrebbero essere i diritti altrui o la convivenza civile.
Così le famiglie si disgregano e quando il fenomeno non è evidente esse occultano le proprie ferite. I genitori preferiscono fare gli adolescenti e assecondare i propri capricci e i figli sono sempre più lasciati a loro stessi, come autodidatti. Questo impulso all’atomismo non esiste nelle famiglie delle comunità di cui prima si parlava, anzi arriverei a sostenere che tali comunità si fondano proprio su un rigido corpo familiare. L’assenza dello Stato è possibile per dei regimi di convivenza che si basano sul ritenere tutta la comunità come la propria famiglia, necessitante dedizione e cura da parte di tutti.
Ma siamo ancora disposti a sacrificare noi stessi? Sappiamo cosa significa la parola sacrificio? Quelle comunità lo sanno bene. La famiglia nel piccolo, e la società nel grande, hanno bisogno della “rinuncia pulsionale” dell’uomo come diceva Freud, ma l’uomo è sempre più restìo a sedare gli impulsi e le passioni, adducendo la parola diritto come giustificazione per tutte le sue pretese.
Passando al punto di vista istituzionale mi preme solo, per il momento, notare come vi sia un conflitto di opinione sul concetto di famiglia: quasi come se si potesse costruirne una nel vero senso della parola, tassello dopo tassello, fino ad arrivare a quella dei sogni del Mulino Bianco, o ad un modello di unità e sostegno reciproco che in larga parte non esiste più.

Certamente dall’antico potere del pater familias vi è stata una massiccia evoluzione. Si è passati dal potere alla mera responsabilità dei genitori e ciò farebbe sorridere coloro che condividono le opinioni sull’assenza di potere del pensiero anarchico di cui abbiamo parlato. Ma mai gioire anzitempo! Io ritengo che con l’abrogazione del potere si sia però anche perduto un qualsivoglia ordine. La famiglia non ha più un indirizzo stabile, o almeno la maggior parte di loro. Come fiori di specie diverse legati nello stesso mazzolino, ogni componente della famiglia se ne sente sempre meno parte, ci si sente costretti al loro interno e soffocati. Sarà forse a causa della volontà di progettare la vita familiare, invece che accordarsi sull’unione e sul reciproco soccorso nel far fronte alle vicende della vita?
Oltre che estremamente più ampia, la nostra comunità corre verso la affermazione degli interessi individuali, tanto che neanche la più embrionale delle società sembra poter sopravvivere.
Mi riferisco alla famiglia, o quello che la nostra Costituzione definisce all’art. 29 come una “società naturale fondata sul matrimonio”. Tralasciando per il momento le considerazioni sul matrimonio, è utile da sottolineare come la naturalezza dell’associazione qua menzionata sia corrispondente alla spontaneità della convivenza e della vita familiare. Non vado a ribadire l’eterno concetto di uomo come animale sociale; au contraire, voglio evidenziare come il presunto progresso di razionalità dell’uomo coincida non solo con il suo rifuggire qualsiasi rapporto di fiducia o dipendenza, ma anche con il rifiuto totale della sua incompletezza. All’interno di una comunità applicante i princìpi anarchici mi pare sia d’obbligo la volontà di ciascuno nel preservare lo status quo, poiché riconosce l’utilità di quel regime pacifico di condivisione.
In spiccioli, è la base di una società utopica, che se sapessimo concretizzare sarebbe davvero ideale.
Lì ognuno vuol mantenere quel regime comunitario, perché sente che ciò è necessario anche a se stesso: non si potrebbe pretendere da una comunità intera la totale dedizione alla causa anarchica senza un tornaconto o un interesse personale. Però osserviamo quotidianamente come l’uomo moderno cerchi in tutti i modi di rendersi non solo autosufficiente, ma anche privo di qualsivoglia responsabilità. Questo fenomeno è evidente proprio nella più semplice forma di aggregazione. Quanti, oggi, rinunciano alla dedizione alla famiglia per ambizione personale? Quanti rinunciano alla costituzione stessa di una famiglia (mi riferisco a famiglia in qualsiasi modo la si intenda, istituzionalizzata o meno)? Quelle persone che non vogliono neanche far parte della più piccola delle comunità, vorranno forse partecipare ad una più ampia – che sia essa anarchica o statale? Anche Massimo Recalcati, famoso psicanalista, afferma: «Fare gli interessi della collettività è percepito come un abuso di potere contro la libertà dell’individuo». L’uomo moderno desidera la libertà assoluta, quella sciolta da limiti che potrebbero essere i diritti altrui o la convivenza civile.
Così le famiglie si disgregano e quando il fenomeno non è evidente esse occultano le proprie ferite. I genitori preferiscono fare gli adolescenti e assecondare i propri capricci e i figli sono sempre più lasciati a loro stessi, come autodidatti. Questo impulso all’atomismo non esiste nelle famiglie delle comunità di cui prima si parlava, anzi arriverei a sostenere che tali comunità si fondano proprio su un rigido corpo familiare. L’assenza dello Stato è possibile per dei regimi di convivenza che si basano sul ritenere tutta la comunità come la propria famiglia, necessitante dedizione e cura da parte di tutti.
Ma siamo ancora disposti a sacrificare noi stessi? Sappiamo cosa significa la parola sacrificio? Quelle comunità lo sanno bene. La famiglia nel piccolo, e la società nel grande, hanno bisogno della “rinuncia pulsionale” dell’uomo come diceva Freud, ma l’uomo è sempre più restìo a sedare gli impulsi e le passioni, adducendo la parola diritto come giustificazione per tutte le sue pretese.
Passando al punto di vista istituzionale mi preme solo, per il momento, notare come vi sia un conflitto di opinione sul concetto di famiglia: quasi come se si potesse costruirne una nel vero senso della parola, tassello dopo tassello, fino ad arrivare a quella dei sogni del Mulino Bianco, o ad un modello di unità e sostegno reciproco che in larga parte non esiste più.

Certamente dall’antico potere del pater familias vi è stata una massiccia evoluzione. Si è passati dal potere alla mera responsabilità dei genitori e ciò farebbe sorridere coloro che condividono le opinioni sull’assenza di potere del pensiero anarchico di cui abbiamo parlato. Ma mai gioire anzitempo! Io ritengo che con l’abrogazione del potere si sia però anche perduto un qualsivoglia ordine. La famiglia non ha più un indirizzo stabile, o almeno la maggior parte di loro. Come fiori di specie diverse legati nello stesso mazzolino, ogni componente della famiglia se ne sente sempre meno parte, ci si sente costretti al loro interno e soffocati. Sarà forse a causa della volontà di progettare la vita familiare, invece che accordarsi sull’unione e sul reciproco soccorso nel far fronte alle vicende della vita?
Comments
c'era una volta la famiglia che educava. bene o male, il figlio di un bracciante poteva diventare un ingegnere, il figlio di una casalinga un medico. adesso il figlio del politico fa il politico, il figlio del finanziere fa il finanziere, il figlio del contadino fa il contadino. se si disgrega la cultura della famiglia, si disgrega la cultura stessa.
L'ipocrisia di cui tu parli si aggiunge all'individuali smo di cui parlo io ed anzi ti ringrazio di aver aggiunto questo carattere alla mia riflessione. Io vedo questo vizio come una presunzione di perfezione, portato avanti da quanti vogliono mostrare a tutti quello che quei tutti vorrebbero vedere, lamentando poi l'interferenza altrui nei propri affari.