Sudeste: il Fiume come Metafora dell’Esistenza
Dare alla natura il compito di formare gli esseri umani nel carattere, oltre che nelle risorse per la sopravvivenza, è quanto di più significativo. Proprio ciò che ci circonda infatti, dà rilievo e sostanza alla nostra essenza.
Vi è stato un tempo in cui l’immersione in un contesto selvaggio era ben più profonda. Occorre richiamare una memoria ancestrale, fatta di uomini e di rifugi incerti, coi primi rudimenti per la caccia e una comunicazione ridotta all’osso ma efficace, perché lontana dal male del consumismo e da un’idea invadente di tecnologia, allora nemmeno formulabile. La risorsa più preziosa era la vita stessa, per chi riusciva a preservarla dai pericoli e a ricavare il pregio di una simbiosi con la natura, che rendeva attivi e grati ai prodotti della terra. La pesca era un’altra attività utile in termini di movimento e di ricavato: con quella si teneva agili la mente e il corpo, che dovevano adeguarsi in alternanza a una stasi che non metteva in allarme l’eventuale preda, e subito dopo ai movimenti rapidi che, se esatti, consentivano loro di avere piene le mani e la pancia: sfamarsi era soprattutto una questione di ingegno.
Siamo abituati all’ozio, perfino nel ragionamento. E invece occorre il pensiero, l’astuzia, la calma che non rende affrettati il procedimento e la conclusione, coi risultati scarsi che derivano dall’approssimazione.

L’introspezione è un’energia ben spesa che in qualche modo lega poche anime, descritte in maniera profonda e quasi affettuosa: non vi è distacco né giudizio, nel delineare i loro comportamenti, uniti ai vizi e alle scelte personali. Ciascuno di loro vive come può, e all’infuori da ogni schema. Una coppia di coniugi anziani, vede svanire solo in parte un legame saldo e duraturo: il vecchio che viene spesso nominato nel libro, viene svelato in un passaggio fugace, che tuttavia resta bene impresso nell’anima del lettore e della storia. Un giorno smette il lavoro e ogni fatica, e intanto ha un cane che vaga nei paraggi come per accertarsi che ognuno conservi il proprio posto; quell’uomo ha troppi anni sulle spalle, e allora si fa parte della casa in cui vive, e di un tutto ben più grande che forse arriva ad afferrare in rigoroso silenzio, per qualche istante. Proprio in quel silenzio sente sopraggiungere la morte, con un passo così lento e inevitabile da confondersi e mescolarsi col desiderio, fino a togliergli le parole: bisogna fare economia anche con quelle, che sono poche, sempre di meno. E se bisogna usarle per congedarsi, meglio pensarle bene e non abusarne, per non farle inutili quando serviranno a consolare. Sembra sapere che dovranno essere poche e mirate, quasi una dedica; e quel suo restare muto, lo confina in una situazione bizzarra ma pacata: nessuno sente arrivare, come lui, l’oscura passeggera.
Perciò lo lasciano fare, e inizialmente pensano sia tutto un capriccio. Il vecchio invece riflette, ascolta, sceglie di finire con dolcezza la sua vita, e senza scalpore, soppesando gli ultimi grammi di esistenza che sembrano ormai collosi, sembrano scorrere a fiotti e spasmi, per emulare l’energia mutevole e volitiva di un amato fiume, le cui sponde sono da sempre la misure del confine e del conforto: un posto da chiamare casa. La dignità nei gesti, è anche della donna che ha diviso con lui buona parte di un lungo cammino. E che opera il silenzio e la malinconia come fossero un omaggio a un amore un poco arreso, con la rassegnazione agrodolce che deriva dalla consapevolezza di non poter piegare ogni evento al proprio volere, con il male che però non toglie mai felicità ai momenti belli.
Il Boga riserva loro una tenerezza che si raccoglie da gesti minuti e sguardi velati. Poi si allontana da quel momento, da quel pezzetto di vita: lui è la parte itinerante del romanzo. È testimonianza ed evoluzione, sguardo curioso che non si accontenta di vedere ciò che resta nei paraggi: fa affidamento sull’ignoto, e su tutto ciò che ha da insegnargli.
Impara sulla propria pelle il dolore dell’abbandono, e quanto diventi necessario a volte, levare gli ormeggi anche in senso figurato, per chi mette radici ostinate e tristi per il solo timore di un cambiamento. Così lascia tutto, segue la corrente del fiume, calpesta nuove zolle di terra, inventa il sonno lasciandosi cadere su giacigli di fortuna. Guarda, annusa la natura circostante e la ascolta: sa che ha tanto da dare e tanto da togliere. Non dal silenzio, ma dalle compagnie improvvisate apprende la solitudine. Scopre che l’aria quasi vibra, quando l’estate è imminente. L’inverno è oblio, è morte apparente; è uniformità di cielo e di fiume, colore unico su una medesima tela, che toglie prospettiva a quel suo andare senza meta, né pentimento. La mente non produce rimpianti: si orienta verso un meccanismo salvifico, che è di soluzione. Raramente torna al ricordo, poiché l’identità non sa prescindere da ciò che si è stati.
Pochi personaggi restano accanto al protagonista, nei vari spostamenti e fino alla fine. Alcuni affini, e senza che lui li abbia mai davvero cercati: sceglie di vagare in solitaria, fino a che si ritrova con una rabbia che non aveva previsto, a lasciarsi avvicinare e a farsi vicino a sua volta, come può. Questo stravolge i piani e le priorità, ma è un episodio isolato, non uno stravolgimento vero e proprio, una condotta adottata con cieco entusiasmo. Presto tornerà a pensarsi come cosa sola, separata da tutto quanto il resto, e da una parte di sé che non esiste più. E a ondeggiare sulle acque del fiume, in debito di sogni e di speranze: con addosso una lucidità che non sempre deriva dal sapere a cosa si sta andando incontro. A volte vi sono solo l’impensabile, il buio, e ancora una volta la corrente, ed un mondo esotico così lontano, descritto da Haroldo Conti con una bravura che insegna a riconoscere luoghi mai visti, e a pensarli coi tratti minuziosi propri del suo romanzo: poco meno che un dipinto, uno scatto rubato, con molte vite di passaggio e ancora mille storie da inventare.