Prassi Politica, Costituzione ed Etica dell'Onorevole
Quanti di noi conoscono gli articoli della Carta costituzionale?
Secondo alcuni dati ufficiosi, sembrerebbe che addirittura tre quarti degli Italiani non sappiano neppure il suo anno di promulgazione. Una lacuna dovuta a un approccio culturale imperfetto, che si riflette anche sotto il profilo dello spirito comunitario. Se il concetto di comunità come patria oggi è abusato dagli xenofobi da un lato, e si è affievolito dall’altro, molto dipende dal malcontento e dalle incomprensioni tra lo Stato come popolo, e lo Stato come organizzazione. Anche coloro che sono posti alla guida del Paese, infatti, hanno le stesse lacune dei cittadini. Nei tempi dei valori e delle idee, il compromesso politico era una méta per il benessere generale. Benché ci fossero interessi personali e di gruppo di fondo, erano mitigati da uomini capaci, che sapevano il fatto loro. E non serve andare tanto indietro nella Storia se già Cavour, il primo ministro del Regno di Sardegna – non certo famoso per la chiarezza dei suoi fini, si pensi alla guerra di Crimea – tra una strategia diplomatica ed un segreto di Plombières era riuscito a garantire il Lombardo-veneto, e a condurre una serie di politiche mirate alla crescita collettiva. Per quanto la sua figura possa essere invisa ad alcuni, è indubbia la sua abilità. Come illuminato è stato il ruolo dei vari Nenni, Togliatti, Amendola, Spinelli, e un’intera generazione di statisti che non ha ispirato la classe politica attuale, che un giorno sì e l’altro pure tenta di sgretolare il baluardo che il passato ancora gli oppone: i princìpi sanciti dalla Costituzione.
Il nostro sistema costituzionale non ha nulla da invidiare a molti altri, nonostante l’arretratezza del sistema giuridico in fatto di applicazione. La Costituzione, elaborata in epoca postfascista, reca una serie di espressioni umane ben prima che politiche. E proprio per questo è più netta e garantista rispetto a quelle di altri Paesi. Anzitutto l’articolo 1, unico nel suo genere. Solo la repubblica sovietica aveva qualcosa di simile e ammetteva che a fondamento dello Stato vi fosse il lavoro dei cittadini.
Oggi, a molti decenni di distanza da allora, devastati dall’incompetenza di Destre e Sinistre, tutte interessate a una mera politica da vetrina, che utilizza i media e il ricatto dei bisogni per mantenere il potere, quel fondamento pare illusorio, quasi umoristico, ma la differenza rimane. Inoltre, il nostro regime di solidarietà è invidiabile, per quanto la maggioranza si senta poco assistita dallo Stato per il grande divario tra le parole e i fatti. Tant’è, le particolarità della Costituzione sono dovute al grande compromesso che vi è alla base. Tutte le forze politiche antifasciste si occuparono di redigerla, limando il più possibile gli spigoli ideologici, al fine di potersi conciliare. Ovviamente, la coalizione Socialista fu promotrice del concetto alla base dell’articolo 2, che viene ripreso nella parte che riguarda l’uguaglianza materiale dell’art. 3, comma 2.
La fazione socialista riteneva di avere grandi meriti nella Liberazione, e per questo nei lavori preparatori poté esaltare il suo concetto di solidarietà; però fu grazie alla Democrazia Cristiana, sorta di contenitore di riciclo per ex militanti di ogni fazione, che sotto il simbolo della croce riuniva troppi atei e falsi preti, che si arrivò alla formula di uguaglianza così come espressa nella Carta. È un assunto espresso anche in molte altre Costituzioni, ma la nostra mostra in modo più evidente il proposito di attivarsi per raggiungere il pieno grado di uguaglianza materiale. Che poi in realtà non succede né mai potrà accadere, però quel principio è incluso e riportato nella libertà di associazione, che solo in Italia è vista come il massimo grado dello sviluppo di un individuo. Ma se nella I Repubblica vi erano sul serio una Destra e una Sinistra, divise da un Credo che nei momenti difficili sapeva unirsi e conciliare, oggi tutto è unito in uno scopo privato, distante dal cittadino, quindi contrario alla tutela del suo bene.
Parliamo di uomini: Amintore Fanfani, storico dell’economia e dell’arte, si laureò alla Cattolica di Milano in Economia ed ottenne quindi la cattedra di Storia delle dottrine economiche; fece parte della Assemblea costituente e fu il suggeritore dell’articolo 1. Promotore del “piano Fanfani” che rese un servizio alla edilizia in genere (poi tradito nei fatti e scempiato da costruttori selvaggi e politiche del condono), fu ministro degli Interni, della Agricoltura e del Lavoro, segretario della DC; ottenne numerosi mandati come Presidente del Senato, altri come Presidente del Consiglio, e fu anche presidente dell’Assemblea delle Nazioni Unite. Uomini come questo furono per molti anni presenti sulla scena politica italiana non per sete di presenzialismo o per incapacità di fare altro – dote che sembra essenziale nella scena odierna –, ma per alta competenza in più materie, spirito di iniziativa e qualità che non li rendevano solo un nome all’interno dei partiti. Si pensi a Spadolini: pittore, giornalista e direttore del Resto del Carlino, professore di Storia contemporanea all’università di Firenze e parte del consiglio di amministrazione della Bocconi di Milano, fu ministro della Difesa, dell’Istruzione e dei Beni culturali, segretario del Partito Repubblicano Italiano, autore di una pregevole raccolta di biografie e mai sfiorato da ombre, sospetti, illazioni. Per non parlare di Sandro Pertini. Certo anche allora vi erano i faccendieri, i tramiti oscuri e le mezzecalze, e non c’era giorno in cui le cronache giudiziarie fossero prive di nomi illustri, ma il sistema ruotava attorno alle innegabili capacità di un gruppo di statisti (laddove lo statista è colui che usa le sue politiche al servizio del popolo, al contrario del politico). Ebbene, gli statisti non vedevano il popolo sovrano in quanto promotore di norme e di riforme, ma come destinatario di tutte le loro azioni. Ogni attività era in funzione di un fine superiore, proprio perché pubblico.
C’erano gli errori, le inefficienze, ma non si è solo vivacchiato, come tanti sostengono, sulla eredità del boom degli anni ’50; al contrario, si era arrivati ad essere la quinta potenza industriale al mondo. Il patrimonio artistico non era ancora malmesso, inoltre aveva dalla sua una maggiore cultura del rispetto – che non è figlia di lauree o di curriculum, ma di educazione e senso civico – e una spinta alla tutela oggi quasi svanita. Le attuali maschere si occupano di legittima difesa domiciliare e di leggi spot, sfruttando il panico creato dalle loro stesse politiche dissennate. Per di più, le tematiche non vengono affrontate con coscienza, ma copiando leggi europee o di altri Stati per dissimulare l’inerzia e l’incompetenza di prodi lottatori a mani nude per il vitalizio. Siamo arrivati a rimpiangere non tanto i De Gasperi, ma addirittura il più controverso dei burocrati di palazzo: Giulio Andreotti. In una cena tra ministri o a un congresso di latinisti, sapeva fare la sua parte senza andare sopra le righe, né soprattutto scivolarvi al di sotto. Alcuni suoi coscritti erano finiti al confino, o fatti prigionieri non per ragioni etiche, ma per un attestato di opposizione alle ingiustizie.
I vari Longo, Soccimarro, Terracini e la Ravera, bloccati a Ventotene, dissero che l’idea che la futura disfatta delle camicie nere avrebbe creato le condizioni per il loro ritorno non li confortava affatto. Speravano che gli italiani potessero tornare liberi senza patire quello che sarebbe stato un periodo tragico. Questo, per comprendere lo spessore degli uomini.
Uomini che peraltro componevano gli stessi partiti storici sorti dalle maggiori correnti ideologiche novecentesche, e che poi seppero svilupparsi per fare fronte comune. La DC, per esempio, era erede del Partito Popolare Italiano fondato da Luigi Sturzo nel 1919, ispirato a valori di collaborazione, egualitari e assistenziali. Partito più conservatore, la sua storia e la sua costante presenza all’interno dello scenario politico italiano non soltanto ne dimostrano la capacità adattativa e di dialogo rispetto alle altre coalizioni – si veda anche il periodo della solidarietà nazionale della fine degli anni ’70 come prova di dialogo tra i partiti per il benessere socioeconomico del Paese –, ma pure la sua aderenza all’identità nazionale.
Con il ricambio dei suoi componenti, e con il degrado etico, la sua rigidità è diventata trasformismo. A contribuire vi è anche il mutamento del popolo italiano, di cui era espressione, sempre meno praticante dei valori divulgati dal partito.
Maggiori lasciti della DC sono l’europeismo – tanto che De Gasperi è ancora considerato uno dei promotori dell’Unione – e numerosi altre correnti o formazioni nate da costole della balena bianca. Più antico e più laico nei valori era il Partito d’Azione, fondato da Mazzini nel 1853, sciolto nel 1867, poi rifondato nel 1942, di nuovo per un breve periodo. Si batteva per la libertà di stampa e di pensiero, per l’instaurazione del suffragio universale e della responsabilità dei governi nei confronti dei cittadini. A favore del pluralismo e della laicità dello Stato, il partito pretendeva anche uno Stato regionale configurato in repubblica parlamentare, una riforma agraria e una federazione europeista.
Tutti questi ideali, che raggruppavano i migliori intenti della storia del nostro Paese, non tennero unito il gruppo.
Le divergenze sui primi governi Badoglio e Bonomi portarono alle divisioni e alla confluenza dei suoi membri all’interno di altre correnti. Il Partito Socialista, per quanto “pilotato” inizialmente dallo Stato transcontinentale, con il tempo si è ridimensionato e rilocalizzato, dando il suo contribuito all’apertura del diritto italiano e della politica nei confronti delle più basse categorie sociali. Pur non essendo spesso al governo, riuscì ugualmente ad influenzarne l’indirizzo politico. Vi riuscì grazie alla collaborazione con i primi governi liberali come quello giolittiano, riuscendo a fare approvare misure di legislazione sociale sulla tutela del lavoro delle donne e dei bambini, gli infortuni, l’invalidità e la vecchiaia. La coalizione dei partiti socialisti, come già ricordato, fu ideatrice del concetto solidaristico che è alla base dell’art. 2 della Carta, e che dice tutto sulla lungimiranza attiva dei partiti di allora. Quelli odierni, nei quali la solidarietà è solo un ariete a scopi elettorali, sono per lo più centristi, e pascolano tutti nello stesso prato. La battaglia fasulla che combattono salendo su barricate verso le quali i colleghi sparano a salve, è fumo negli occhi. Le divergenze sono strumenti di ricatto per tenere il Paese nel pelago del nulla, anzi, dello scadimento: è dal ’94 che l’Italia perde pezzi, arretra, si indebita più che mai, cede il passo e i primati che aveva nei decenni, con fatica ed ingegno, conquistato. Per non parlare del quinquennio renziano: un disastro sotto ogni aspetto. La danza delle poltrone blocca di fatto il processo evolutivo dello Stato, che vittima della politica della vetrina non può varare nemmeno una riforma utile ai cittadini, ma si limita ad annunci di volta in volta smentiti dagli atti. In questa ribollita, tutti auspicano a diventare parte della maggioranza grazie a coalizioni improbabili, fragili, con il risultato che vi sono più votazioni sulla fiducia che sulle leggi economiche.
Le idee partitiche storiche invece, fondendosi, hanno elaborato concetti che potrebbero soddisfare al meglio le esigenze di vita dei cittadini e dello Stato, tuttavia il conflitto successivo (e ancora attuale) su chi dovesse applicare quelle norme ha fatto sì che non venissero mai applicate appieno. Un po’ di storia è necessaria: in concreto, l’idea di base dell’accordo informale tra Craxi, Andreotti e Forlani – il cosiddetto CAF – era, appunto quella di tenere il governo nelle loro mani, ed essendo assimilabile ai papocchi come il vergognoso Patto del Nazareno, è il punto di svolta tra il governo della Prima Repubblica e i seguenti. Se il potere che prevale è quello personale, lo statista non ha più nulla di onorevole: si spoglia della sua veste e diventa un politicante. Elemento di svolta tra le due repubbliche è il caso Mani Pulite, il caos giudiziario di una Tangentopoli mai davvero estinta. Durante le indagini si svelano molti dei legami fraudolenti tra imprenditoria e politica (peraltro già noti da decenni) e l’indignazione generale, oltre a spazzare via moltissimi corrotti, apre la strada ai cosiddetti nuovi. La memoria corta – per chi aveva ed ha convenienze – degli italiani fa il resto. Appalti pubblici pilotati, corruzioni di ogni genere: tutto arriva in prima pagina e diventa subito nulla, o si spegne dietro una polemica sterile, buttato in farsa o sommerso da notizie ad hoc per concentrare altrove le attenzioni. È il trionfo della normalizzazione del reato, che genera una tolleranza passiva ad esso. Le istituzioni sono piene di banditi, dice la gente, che dai guai con la legge dei suoi amministratori non è toccata, come se il binomio fosse una abitudine e l’avviso di garanzia una sorta di pedigree. La sopravvivenza di certi figuri, tanto a Roma quanto nel tessuto del Paese, ne è la prova. Lo strumento per seppellire o riesumare un uomo politico di oggi è la propaganda mediatica, e la celebrità spesso viene da doti che non hanno alcuna attinenza con lo statismo. Si fanno questioni per una svista nel parlato, un lapsus, un verbo, che pure ci stanno, e un parlamentare deve saper parlare (lo esplicita il suo titolo!), ma non per gli affari nei quali chi parla bene è implicato.
L’Italia è divenuta la quinta potenza al mondo per mezzo di gente che, spesso, non aveva più della quinta elementare, ma in compenso aveva un profondo senso del lavoro, della serietà, dell’etica. Una analisi filologica del vocabolo ci darebbe risultati che molti laureati di oggi non saprebbero capire, poiché anche l’etica è subordinata a una cultura che la esclude dalle virtù che danno il pane. La classe dirigente rispecchia tutto ciò: è fatta di figure già potenti, e dei loro yes-men, e nulla potrebbe spiegare meglio il concetto di casta. La moralità viene espressa dal concetto giuridico in auge: la privacy, tanto che l’organizzare festini con droga e ragazzine non basta per indignare l’opinione pubblica in parte perché è una “faccenda personale”, in parte perché tanti pensano che sia furbo agire in quel modo. Ho un privilegio, ne godo i benefici. Ecco la grande differenza con il passato.
Un uomo di Stato invece dovrebbe avere una condotta onorevole, proprio come esplicita il titolo di cui la Repubblica – sancita da una Costituzione che costui tenta, ogni due per tre, di manomettere – lo fregia. In un luogo civile una macchia è una macchia, e si lava con l’esclusione dalla vita pubblica. E non per intransigenza, ma perché l’attitudine di un uomo è figlia del suo carattere, e quando si ha a che fare con la collettività, non si può né si deve agire contro di essa. Sarebbe come se un medico non desse i farmaci corretti ai malati, per rivenderli a chi li compra a buon prezzo, ed ai malati ne riservasse altri di minore efficacia. Ammesso che gli scandali vengano alla luce, la protezione che la “casta” si garantisce crea un vuoto di diritto per tutte le categorie al di fuori di essa. La disattenzione della gente alla biografia, ai meriti e alle colpe di chi vota in cabina elettorale, ha portato all’abolizione della rappresentanza: i cittadini non la sentono più, e gran parte dell’errore è da attribuire a loro.
Senza dubbio il diritto di voto – con leggi elettorali come il Porcellum – è stato manipolato da chi pensa che la giustizia coincida sempre con il proprio bene, e che il diritto serva a favorirlo. Più sconvolgente ancora è il fatto che i dubbi sulla legge siano sorti dalla sentenza della Corte Costituzionale, e non abbiano mai riscontrato una soluzione decente. Il vero motivo è che la non bastano più le censure, la distrazione di massa, le fake news, l’induzione alla ignoranza del popolo: ciascuno pretende la riforma elettorale che più gli si addice. In fondo, la moda della legge ad personam esiste da tempo, non occorre menzionare il noto lodo Alfano, che ripropone pari-pari quello di Schifani volto a introdurre una immunità processuale fino alla fine della carica del Presidente del Consiglio – che al tempo era già invischiato in vari procedimenti. La celebre divisione dei poteri non esiste più e la competenza è sostituita da invadenza e incapacità. È indicativo come tutti si chiedano da chi, i cittadini, vogliono essere governati, e non come, riducendosi ad una massa manzoniana utile solo alla conferma di facce e non di programmi, a bacino di voti come punti in un videogame, funestata poi da chi, giunto al potere, non sa come fare a esercitarlo e si riduce alla inattività, o alla pallida e infruttuosa imitazione degli altri. Per compiere un simile processo è stata usata violenza alla democrazia (che pur essendo il più blando dei regimi, per lo meno garantisce un buona libertà di movimento), riducendola a demagogia. La demagogia vive di proclami, insegna a temere i fatti e ad amare solo le promesse. La funzione della promessa è illusoria, sfrutta il malcontento diffuso ed è alla base del bipolarismo dei cittadini, che a una tornata votano la finta Destra, a una seconda la finta Sinistra. I rappresentanti stessi balzano con agilità insospettabile per la loro anagrafe da uno scranno all’altro, e c’è chi ha dato appoggio a governi in palese opposizione al suo Credo per responsabilità. La magica parola che tutto appiana, che illude e dà un tono di lealtà verso lo Stato e il popolo è responsabilità. Sventolando la sua bandiera si può dare un colpo al cerchio e uno alla botte; si può così zompare da un estremo all’altro, per dare appoggio – quindi garantire qualche anno di “stabilità”, e stipendi assicurati – ad un governo, poco importa se composto da inetti, o da furfanti della peggiore specie. E davanti a questo valzer dei seggioloni, il cittadino si accorge che la politica è un virus contagioso e smette (del tutto) di esercitare i suoi diritti, assecondando lo scopo del potere. Si crea quindi una frattura tra Stato-organizzazione e Stato-comunità, poiché i due non sono più interdipendenti o collegati, ma ognuno cura i propri interessi. Unico rapporto tra le due categorie resta quello di esempio, e in negativo: la gente si ispira agli impuniti per giustificare elusioni, violazioni e bassure di ogni tipo.
Per questo la Costituzione, per molti caotica e carente di una direzione politica che invece renderebbe più semplice il sistema di governo, è in realtà l’ultimo baluardo di difesa del diritto. La complessità delle procedure di modifica, che necessitano di un accordo tra i partiti, la rende stabile e unica fonte di leggi sopraordinate a tutti i cittadini. Nonostante le critiche sulla sua natura ibrida, vi è da menzionare come la funzione di indirizzo politico sia uno dei poteri inventati negli ultimi anni. In primo luogo perché la funzione di indirizzo politico è una trovata recente, distante dalla tripartizione ben più assennata tra esecutivo, legislativo e giudiziario promossa dalla Carta. Inoltre la Costituzione nasce per il popolo e a difesa delle istituzioni, non per indirizzare le decisioni parlamentari. C’è anche da aggiungere che la nostra Carta, a differenza di ogni altra, rimarca il pensiero dominante di libertà e di difesa contro tutte le forme di totalitarismo, e non si tratta solo di un manifesto figlio di tempi irripetibili. Lo si vede nel quotidiano. Lo si intuisce dalla servitù dei grandi canali di informazione verso i partiti che dettano le priorità e la scaletta delle notizie, cosa dire e cosa tacere. E di tanto in tanto, nel silenzio complice di giornali e tivù, o in un trafiletto breve e prudente per non sollevare polveroni, tentano di dare un colpo alla Carta. Che va bene così com’è, inutile girarci intorno: da cambiare è piuttosto una classe dirigente che non ha più in sé i valori né la minima eredità di quella che superò ogni diverbio in nome della nazione.
Comments
l'unico partito serio in italia.
i componenti del partito d'azione avevano la sola e unica idea intelligente di europa.
gli attuali spaventapasseri dovrebbero studiare le idee del partito d'azione, poi imbracciare una cesoia e andare a fare i giardinieri (niente contro i giardinieri, ma nelle aule parlamentari ne lascerei ben pochi).
complimenti all'autrice per la chiarezza delle idee e per la completezza di averle esposte in quel modo.
Oggi invece banche salvate, risparmiatori espropriati. Nessuno che fa un DASPO per gli amministratori truffaldini.
Mi piace il discorso sulla responsabilità: è un termine abusatissimo, come il "ti amo" che troppi buttano fuori come una boccata d'aria e invece è una trappola. Uguale è per la responsabilità... addirittura Berlusconi ne parla, dice che i "suoi" fanno opposizione responsabile... e le televisioni lo passano a tutte le ore come fosse un oracolo. Promuoviamo chi non migliora il Paese e denigriamo chi tenta di fare qualcosa o potrebbe farlo, ma non ha i mezzi. E la responsabilità da quale parte sta? Da quella degli impuniti, sembrerebbe...
Dopo questa premessa, triste ma obbligatoria, riconosco e apprezzo il reportage sulla penisola a mollo nel millennio dei tecnocrati: "lo strumento per seppellire o riesumare un uomo politico di oggi è la propaganda mediatica, e la celebrità spesso viene da doti che non hanno alcuna attinenza con lo statismo. Si fanno questioni per una svista nel parlato, un lapsus, un verbo, che pure ci stanno, e un parlamentare deve saper parlare (lo esplicita il suo titolo!), ma non per gli affari nei quali chi parla bene è implicato". Goccia a goccia, la verità più nuda e sintetica. Innegabile.
I deputati che non sanno articolare un discorso compiuto, che sbavano dietro alla lobby ed eseguono gli ordini.
I deputati che vengono menati dagli antivaccinisti e la gente che solleva un coro in difesa degli uni o degli altri. E invece sono entrambi indifendibili.
Gli amministratori pubblici che fanno marcire le opere grandiose che abbiamo sul territorio.
Gli amministratori pubblici corrotti e sempre indagati e sempre (incredibile!!) votati.
Gli amministratori pubblici che non sanno fare altro che demandare, salvo sbattersi come tappeti in campagna elettorale.
La "politicanza" che toglie tutti i giorni risorse alla sanità, all'istruzione e alla cultura.
La "politicanza" che dovrebbe studiare la Costituzione e prima di salvare gli istituti di credito o le fondazioni dovrebbe imparare a memoria la Costituzione e i suoi significati di salvaguardia, saperla cantare in rima a rovescio, e metterla in pratica nell'unico vero bene che è chiamata a tutelare: l'interesse del popolo.